L’ordinanza n. 33341 dell’11 novembre 2022 della Suprema Corte di Cassazione consente di ripercorrere gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sulla natura dell’obbligo di repêchage e sulla questione della ripartizione dell’onere della prova. Tale provvedimento offre anche la possibilità di comprendere se l’obbligo di ricollocazione debba qualificarsi quale elemento interno o esterno al licenziamento per giustificato motivo oggettivo e se, in caso di mancata ricollocazione del prestatore, debba applicarsi la tutela reale o solo quella indennitaria. Tematica questa di particolare rilievo alla luce dei principi espressi dalla sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, co. 7, secondo periodo, L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola “manifesta” e che sono stati espressamente richiamati dal provvedimento in annotazione.
- IL CASO
La vicenda tratta il caso di un lavoratore licenziato che aveva dedotto l’illegittimità del recesso in ragione della manifesta insussistenza del fatto e della violazione dell’obbligo di repêchage. Su tale ultimo punto deduceva che era possibile la propria ricollocazione in azienda al fine di salvaguardare il posto di lavoro tenuto conto delle nuove assunzioni intervenute al momento del recesso e del ricorso al lavoro supplementare. La società in appello veniva condannata al pagamento di un’indennità risarcitoria quantificata in 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il punto portato all’attenzione dei giudici di legittimità riguarda il contrasto interpretativo generato dalla diversa applicazione di tutele in caso di recesso quando sia stata accertata la violazione dell’obbligo di repêchage, fattispecie che non era stata ritenuta dai giudici di secondo grado quale presupposto sufficiente ad integrare il requisito della “manifesta insussistenza” del fatto, come richiesto dalla norma dell’art. 18 L. 300 del 1970, come riformato dalla L. n. 92 del 2012.
- ONERE PROBATORIO
Al riguardo occorre dare conto dell’importante pronuncia della Suprema Corte che, con le sentenze n. 5592 del 22 marzo e la n. 12101 del 13 giugno, in totale controtendenza rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale (v. Cass. Civ. 10 maggio 2016, n. 9467; Cass. Civ. 8 novembre 2013, n. 25197; Cass. Civ. 8 febbraio 2011, n. 3040), ha affermato il principio per cui l’onere della prova sull’impossibilità di ripescaggio incombe totalmente sul datore di lavoro, non essendo invece il lavoratore onerato di alcuna allegazione in tal senso. I giudici di legittimità hanno fornito una interpretazione “estensiva” del dovere di repêchage, osservando come l’impossibilità della ricollocazione del dipendente rientri nei requisiti del giustificato motivo.
Tornando alla sentenza in esame, i giudici di legittimità, richiamando espressamente i sopra citati principi, hanno sostenuto che il lavoratore ha solo l’onere di dimostrare il fatto costitutivo dell’esistenza del rapporto di lavoro, mentre ricade sul datore di lavoro quello di allegazione e prova “dell’impossibilità di ‘repêchage’ del dipendente licenziato, quale requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”. In concreto, ha sostenuto ancora sul punto la Cassazione che incombe sul datore di lavoro “la prova del fatto negativo costituito dall’impossibile ricollocamento del lavoratore che può essere data con la prova di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo”. Sulla base di tale assunto, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte territoriale avesse fatto corretta applicazione di tali principi avendo verificato che gli elementi di valutazione dai quali la società avrebbe voluto far derivare l’impossibilità di adibire altrimenti il lavoratore (flessione del numero di dipendenti, assenza di posizioni idonee per il reimpiego, estinzione di numerosi appalti, cospicuo ridimensionamento delle attività e del personale), pur complessivamente considerate non consentivano di escludere che, in presenza di numerosi appalti ancora in piedi anche in ambito extra regionale, vi fossero posizioni utili alle quali assegnare il lavoratore invece che licenziarlo.
- REPECHAGE E TUTELA REALE
La giurisprudenza di merito aveva valutato l’obbligo di ripescaggio quale elemento esterno al fatto, ritenendo che la violazione dello stesso non comportasse l’applicazione della reintegrazione ma solo la tutela indennitaria ex art. 18, comma 4, l. n. 300/70. Secondo questo orientamento, tale inadempimento non poteva ricollegarsi alla manifesta insussistenza, che può dar luogo alla tutela reintegratoria di cui all’art. 18, co. 7, Stat. Lav., ma solo a quella indennitaria ex art. 18, co. 5 (Tribunale di Roma 13 settembre 2017; Tribunale di Varese 4 settembre 2013).
La Corte di Cassazione, successivamente investita della questione, ha invece elaborato il principio secondo cui il repêchage è un elemento costitutivo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, fa parte del fatto (Cass. Civ. 2 maggio 2018, n. 10435, secondo cui “posto che nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra […] sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, il riferimento legislativo alla ‘manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento’ va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”). Si stabilisce così un unico filo conduttore che collega eziologicamente le due fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e dell’obbligo di repêchage con riferimento alle conseguenze sanzionatorie in caso di inosservanza di quest’ultimo.
- DIRITTO ALLA REINTEGRA E INSUSSISTENZA DEL FATTO
Nel provvedimento in analisi i giudici di legittimità hanno ritenuto che, a fronte dell’accertata violazione dell’obbligo di repêchage, si dovesse disporre la reintegrazione del lavoratore in quanto il requisito della manifesta insussistenza era stato espunto dall’ordinamento.
Le argomentazioni della Suprema Corte in commento prendono le mosse direttamente dai principi espressi dalla sentenza n. 125 del 19 maggio 2022 della Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 18, co. 7, secondo periodo, L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola “manifesta”. In merito, i giudici di legittimità hanno evidenziato che nel giudizio di cassazione, qualora sopravvenga la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge dopo la deliberazione della decisione della Corte di Cassazione, ma prima della pubblicazione della stessa, e tale dichiarazione risulti potenzialmente condizionante rispetto al contenuto ed al tipo di decisione che la Corte stessa era chiamata a rendere, sussiste il dovere “di tenere conto della suddetta dichiarazione”. Ciò ha determinato una nuova camera di consiglio della Suprema Corte con cui è stata cassata la sentenza della Corte d’appello al fine di consentire al giudice del rinvio di verificare, laddove i giudici di merito avevano applicato la sola tutela indennitaria, anziché quella reintegratoria, “quale sia la tutela in concreto applicabile alla fattispecie sulla base della nuova dizione letterale dell’art. 18 comma 7 della legge n. 300 del 1970”.
Filippo Pasqualetti